Carl Schmitt - La tirannia dei valori
Nel 1959 il giurista tedesco Ernst Forsthoff (1902-1974) tenne a Ebrach un seminario, parte di una serie, cui assisterono una quarantina di studenti. Forsthoff aveva scelto come tema del seminario Il passaggio dal XIX al XX secolo. Carl Schmitt (1888-1985), invitato da Forsthoff, che era stato suo allievo, intitolò il proprio intervento La tirannia dei valori. Riflessioni di un giurista sulla filosofia dei valori.
Schmitt ripercorre la storia della filosofia dei valori. Con una citazione da Heidegger, ne descrive la nascita nel XIX secolo come una reazione al nichilismo derivato da una scienza avalutativa.
Max Weber (1864-1920) rifiuta un mondo meccanicista e impersonale e pone nel singolo uomo, nella sua soggettività e libero arbitrio, il fondamento dei valori. Seguono Scheler (1874-1928) e Hartmann (1882-1950), che dispongono morali oggettive fondate su gerarchie di valori.
Da Hartmann, Schmitt riprende il titolo del suo intervento: la tirannia dei valori. Hartmann aveva inteso, con questo nome, la tendenza che ha ogni valore ad impostarsi come signore (tiranno), determinando gli altri valori e il modo in cui essi, a loro volta, determinano le scelte del singolo. Schmitt si concentra proprio su questo aspetto di conflittualità (polemogenicità) insita nel concetto di valore. Di fatto, Schmitt non riconosce come efficace il tentativo di costruire un’etica oggettiva dei valori. Osserva invece come i valori tendano a mettere l’uomo uno contro l’altro, perché un valore, per valere, deve essere posto e imposto. Il valore è un termine del discorso commerciale: i valori sono dunque sostituibili fra di loro, e il fatto che sia indispensabile a un valore superiore può rendere provvisoriamente un valore inferiore più importante, come se fosse necessario per un investimento. Il fine finisce così per giustificare i mezzi.
Schmitt osserva gli effetti pratici di questa soggettività dei valori. Nell’introduzione al suo intervento, cita tre esempi di valori: i valori dell’enciclica sociale Mater et magistra di Papa Giovanni XXIII, il valore del lavoro secondo i filosofi marxisti e il popolo tedesco come sommo valore secondo Adolf Hitler. Ognuno di questi tre ambiti nega il valore degli altri due. Schmitt, esaminando i contrasti di valore, nota anche che cosa significhi accettare un valore superiore all’esistenza del singolo uomo (generalmente, verrebbe da aggiungere, di quella altrui) o all’esistenza della specie umana in generale, in un’epoca di armi di distruzione di massa. Il discorso di Schmitt sembra ancora attuale, visto che oggi, nell’epoca della guerriglia e del terrorismo, l’annientamento del non-valore e del suo portatore in nome del valore è il tema abituale del notiziario.
Al tempo stesso, Schmitt osserva che i valori sono scelti spesso dai giuristi come fondamento delle leggi della società civile e termina il suo intervento con un invito alla massima prudenza per un legislatore che si faccia mediatore dei valori nella creazione delle leggi.
L’intervento di Schmitt è piuttosto breve (16 paginette). La gran parte del piccolo libro è occupata in realtà da un’introduzione scritta, a posteriori, da Schmitt stesso, e da un saggio di Franco Volpi, in cui si contestualizza La tirannia dei valori. Così si evita che si ripeta quanto avvenuto nel 1964, quando una versione decurtata fu pubblicata dalla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» all’insaputa di Schmitt e offerta a migliaia di lettori che, dal canto loro, non avevano idea del contesto in cui si era sviluppato l’intervento.
Schmitt iniziò la sua carriera di giurista come sostenitore della destra conservatrice tedesca. Nel 1932 ebbe luogo il caso noto come Preußenschlag, da cui Schmitt avrebbe avuto la sua causa più famosa. Il cancelliere tedesco von Papen sostituì il governo dello Stato federato prussiano con un commissario, in modo da potervi colpire i partiti rivoluzionari, cioè quello comunista e quello nazionalsocialista. Un’operazione del genere andava contro i principi di indipendenza dei Länder dello Stato tedesco; al tempo stesso, era ammessa dalla Costituzione di Weimar in casi di emergenza. Il governo esautorato del Land Prussia portò la questione in tribunale, e Schmitt fu chiamato come difensore del governo von Papen. La Corte di Stato giunse alla conclusione che il diritto a commissariare la Prussia appartenesse al governo, che però non poteva annullare i rapporti fra il governo locale prussiano e gli apparati legislativi di Prussia e Germania. La situazione venne descritta all'epoca con un gioco di parole: Brecht hat Recht, Bracht die Macht: Brecht, il primo ministro prussiano, aveva ottenuto ragione (Recht), ma Bracht, il commissario imposto da von Papen, deteneva comunque il potere (Macht).
Schmitt divenne a quel punto noto come il più prominente dei costituzionalisti tedeschi, ma von Papen, colpito dal clamore dell’intera vicenda, venne destituito prima della sentenza, giunta nel tardo 1933, e sostituito da von Schleicher, suo ministro della Difesa e protettore di Schmitt. Inoltre, se gli effetti pratici del Preußenschag avevano posto Schmitt al fianco dei reazionari come von Papen e von Schleicher, la reputazione di difensore dell’azione diretta dello Stato negli affari locali lo accompagnò anche quando Hitler generò il primo Stato tedesco centralizzato.
Von Schleicher ottenne consensi da sinistra e centro, ma perse parte della destra. Lo stesso von Papen si accordò con Hitler a Colonia per creare un fronte parlamentare contro Schleicher. Von Schleicher propose al presidente Hindenburg di sciogliere il parlamento e di non chiamare nuove elezioni, conferendo invece a von Schleicher pieni poteri. Era una richiesta incostituzionale e Hindenburg rifiutò. Von Schleicher diede allora le dimissioni. Venne sostituito il 30 gennaio 1933 da Hitler.
La rapidissima ascesa e l’altrettanto rapida caduta di Schmitt durante i primi anni del governo nazista condizionano fortemente il modo in cui la sua opera viene oggi letta, al punto che il saggio di Volpi si conclude provocatoriamente con l’invito a leggere La tirannia dei valori come se fosse un intervento anonimo. Che sia una provocazione è reso ancora più chiaro dal fatto che, in realtà, il saggio è posposto al testo di Schmitt.
La domanda – se e fino a che punto Schmitt fosse un nazista – se la posero comunque anche i contemporanei, nazisti e non. L’adesione iniziale al regime parve entusiastica, ma poteva anche trattarsi di opportunismo o, dopo l’assassinio di von Schleicher durante la notte dei lunghi coltelli (1934), del desiderio di sopravvivere. Onori e potere, comunque, sparirono in fretta. Nel 1936 apparve su «Das Schwarze Korps», il settimanale delle SS, un virulento attacco contro Schmitt, che lo tacciava di opportunismo e di mancata aderenza alla dottrina nazista, oltre che di attaccamento al cattolicesimo e di rapporti con intellettuali ebrei. (In realtà, Schmitt risultò essere sufficientemente antisemita da denunciare i suoi colleghi ebrei all’università di Colonia; se questo fosse stato semplice opportunismo, restano le dichiarazioni antisemite nei suoi diari, che potevano però avere fonti diverse dal nazismo).
Schmitt venne perfino accusato di trame con il Vaticano. È possibile che, in realtà, pagasse il prezzo delle idee espresse in passato: nel 1932 aveva sostenuto, ad esempio, che parti fondamentali della Costituzione dovessero essere preservate, anche se questo avesse significato annullarne altre: ad esempio, che la maggioranza parlamentare non dovesse essere sufficiente per modificare la Costituzione. In ogni caso, dopo il 1936 Schmitt si trovò fuori dal gioco politico e rischiò di perdere anche la cattedra.
Con una certa ironia, se davvero si trattò di opportunismo, varrebbe la pena di fare un paragone fra Schmitt e la sua prima moglie: nel 1916 Carl sposò la sedicente contessa serba Pawla Dorotić, in realtà un’arrampicatrice sociale da cui divorziò otto anni dopo: un matrimonio durato più a lungo di quello di Schmitt con il nazismo.
Nel 1945, Schmitt venne incarcerato dagli alleati, per poi essere rilasciato quando non si individuò una base giuridica su cui imputarlo. Schmitt era, a quel punto, compromesso, anche perché non prese parte al processo di denazificazione. Continuò comunque a scrivere, pubblicando nel 1951 Il nomos della terra. Alcune delle questioni rimastevi aperte dovevano trovare risposta a Ebrach. La sua attività intellettuale continuò, parzialmente sotto pseudonimo, fino alla morte nel 1985, abbracciando un periodo amplissimo.
Così lo presenta una casa editrice tedesca, la Duncker & Humblot, che nel 2005 ha pubblicato il suo Legalität und Legitimität:
"Un antidemocratico perspicace
Carl Schmitt fu un teorico costituzionalista antiliberale e antidemocratico. Nella sua opera esercita una critica mordace, ma giuridicamente fondata, alla Costituzione della Repubblica di Weimar e attacca la democrazia parlamentare in genere. Se non fosse stato un antisemita, che scacciò colleghi ebrei dalla professione di giurista, e se non si fosse gettato fra le braccia del nazionalsocialismo, sarebbe probabilmente entrato nella storia del pensiero come uno dei più brillanti critici della democrazia. Così tuttavia gli rimane incollata la macchia di aver usato la sua stupefacente intelligenza e il suo stile rifinito per appoggiare null’altro che un sistema omicida. In Legalità e legittimità egli analizza perspicacemente perché la Repubblica di Weimar deve cedere: perché la sua Costituzione è contraddittoria e perché non unisce il diritto con la giustizia e la legalità con la legittimità. I lettori moderni, tuttavia, mediteranno durante la lettura dell’analisi di Schmitt anche su questo: perché una decisione di maggioranza di due terzi dovrebbe essere in effetti più legittima di una semplice maggioranza, se si tratta di cambiare la Costituzione? Schmitt ha posto il dito nella piaga della democrazia. La sua diagnosi è ancora degna di lettura – specialmente se ci si interessa dell’ordinamento di uno Stato liberale."
Resta un’ultima nota. Spesso in Italia ci lamentiamo del burocratichese e i giornali abbondano di articoli più o meno umoristici sull’argomento. Anche la filosofia, però, non scherza. Wertträger significa in tedesco “portatori di valore”. In italiano viene tradotto con “portatori assiologici”. Non è un unicum italiano – axiologique esiste anche in francese. Umwertung – "cambio di valore" – diventa “transvalutazione”. In linguistica, Bedeutungswechsel – “cambio di significato” – diventa “slittamento semantico”. Non si mette in dubbio il diritto delle singole discipline alla costruzione di un vocabolario il più preciso e adeguato possibile, ma viene il dubbio che l’italiano, già da sempre spezzettato nei dialetti locali e ora fortemente differenziato in varianti regionali, abbia una tendenza automatica a reinterpretarsi in nuovi linguaggi non mutuamente comprensibili.
Versione recensita: CARL SCHMITT, La tirannia dei valori. Riflessioni di un giurista sulla filosofia dei valori. A cura di Giovanni Gurisatti. Adelphi, Milano 2008, ISBN 9788845923159, 112 pp., € 5,50
Valutazione:
Il recensore confessa la propria ignoranza e non pretende di valutare il testo nell’ambito della filosofia del diritto. Il volumetto è indubbiamente ben curato e cerca di dare un contesto il più accurato possibile. Si tratta certamente di un testo complesso e non adatto a tutti, anche se è una lettura estremamente stimolante e può valere come porta da cui muoversi verso diversi ambiti – storico, filosofico e giuridico.
Le informazioni su Schmitt nel periodo nazista sono tratte da: FILIPPO RUSCHI, Carl Schmitt e il nazismo: ascesa e caduta del Kronjurist, in «Jura Gentium», vol. IX, 2012, pp. 119-141, consultabile online.