originale

Eli Pariser – Il Filtro

Google è perfetto per aiutarci a trovare quello che sappiamo già di volere, ma non a trovare quello che non sappiamo di volere.
— Eli Pariser, Il Filtro

“Internet ha cambiato il nostro modo di vivere.” Lo si ripete senza fine e anch’io, in realtà, avevo già scritto qualcosa del genere nella recensione di Webcomics. È una frase, però, che diventa sempre più vera.

Si possono cercare un’infinità di motivi, ma quello fondamentale è questo: internet è un mezzo attraverso cui è possibile sia ricevere che trasmettere, che può essere usato sia in chiave sincronica che asincrona, che è in grado di proporre contenuti visivi e uditivi, e ora, attraverso lo sviluppo delle stampanti 3d, anche fisici. Ha un basso prezzo, è in espansione continua e offre dati per chiunque, che si tratti di bibliografia per un accademico, di film, di canzoni, di ricette, di istruzioni di origami o di informazioni sul mondo del wrestling.

Certo, l’accuratezza e l’attendibilità non sono sempre accettabili. Ci sono anche casi bizzarri, come quelli dei complottismi, ci sono saggi scritti da persone male informate; ci sono anche stati episodi in cui informazioni errate o inaccurate su temi importanti hanno avuto un riverbero tragico, portando a malattia o morte. Questo è specialmente vero quando si parla di diete e salute.  

Ma chi si occupa di stabilire che cosa è affidabile e che cosa non lo è?

Gli standard di affidabilità cambiano con lo sviluppo delle competenze degli esperti. Un esempio: nel 1904, il recensore di un libro di storia spagnola criticava duramente l'autore, S.P. Scott, perché aveva accettato un’informazione inverosimile come la legalizzazione della poligamia nella Spagna medievale da parte di un re cattolico. Questa informazione, in realtà, non veniva dal nulla, ma da una cronaca datata al decimo secolo dopo Cristo. Peccato che la cronaca fosse un falso scritto settecento anni più tardi, e avesse già allora causato problemi legali al suo autore. Anche Edward Gibbon, uno scrittore fondamentale per la storiografia inglese, aveva avuto modo di diffondere nel mondo anglofono la notizia della falsità della cronaca. Gibbon era morto nel 1794: quello di Scott non poteva dunque essere un problema di aggiornamento. Eppure, Scott aveva preferito ignorare l’opinione che il mondo scientifico aveva avuto per almeno un secolo, perché, fosse per motivi ideologici, fosse per prevenzione, preferiva la realtà come la rappresentava un’opera falsificata. Così un esperto, letto il libro, aveva inviato una recensione ad una rivista e ne aveva segnalato l’inaffidabilità. La rivista pubblica la recensione, dà probabilmente possibilità di replica a Scott, gli altri esperti leggono la recensione e si mettono in guardia.

Quando Larry Page e Sergey Brin ebbero l’idea di fondare quella parte fondamentale di Google che si chiama PageRank, avevano in mente proprio i saggi accademici. Un saggio più citato era più influente e, verosimilmente, più utile di un saggio senza citazioni. Così pensò di usare lo stesso sistema per le pagine internet: in base al numero di link che puntavano su di una pagina, avrebbe aumentato la rilevanza di quel sito. Più link, più importanza.

Immagine prodotta da Felipe Micaroni Lalli. Link all'originale. Licenza Creative Commons Attribuzione - Condividi allo stesso modo 2.5 generico. File non modificato.

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Avere un motore di ricerca funzionante cambiò molte cose. Cercare qualcosa in internet non significa più andare a caccia di link, alla ricerca di un articolo più pertinente o specifico, ma semplicemente scrivere un numero limitato di parole in Google e fare click su uno dei primi risultati.

La struttura del linguaggio, tuttavia, richiede che, per essere comprensibile, abbia un contesto. Al di là di fattori come sarcasmo o ironia, già solo “minigonne kappa” avrà due significati diversi, se scritto da una ragazza in cerca di vetrine virtuali o da un appassionato di tuning e auto italiane.

Esiste un modo per evitare confusioni di questo tipo, ed è quello di fare in modo che Google ricordi le ricerche precedenti fatte dall’utente. Se si conoscono le abitudini di una persona, è più facile individuare che cosa vuole. Se un utente che ha già cercato più volte la formazione dell'Inter cerca “motta”, ha molto più senso proporgli Marco o Thiago, piuttosto che i panettoni (a meno che sia Natale). Per restare in tema, un arredatore che cerca “bauli milano” probabilmente non vuole una fetta di pandoro - sempre che non intenda la Motta, che ha sede a Milano.

I mezzi per la registrazione di dati sul comportamento dell'utente ci sono già e c’erano anche nel 2011, quando è uscito il libro. Le opzioni sono diverse: se l’utente ha un account Google, Google può semplicemente salvare nell'ambito del suo profilo le parole da lui cercate e i link da lui cliccati nella pagina Google.

Se però l’utente non è registrato, ci sono altre tre possibilità.

La prima è l’utilizzo dell’indirizzo IP, il numero che rappresenta l’identificazione univoca del computer usato per la ricerca. L’IP può cambiare nel corso del tempo, ma alcuni numeri, relativi alla posizione fisica del dispositivo, restano sempre uguali (a meno di non spostarsi, ovviamente).

La seconda è simile, ma non identica. Si chiama browser fingerprinting e consiste nell’utilizzare le informazioni inviate dal browser per identificarlo. Se si individuano il tipo di browser, i plugin installati, la risoluzione dello schermo, il fuso orario, le impostazioni di sicurezza e i caratteri utilizzabili dal computer, è possibile avere una identificazione univoca piuttosto facilmente.

La terza possibilità è l’uso dei cosiddetti cookies. Il nome è di dubbia origine, ma significa “biscotti”. Si tratta di piccoli file che vengono installati da un sito attraverso il browser e che sono utilizzati per facilitare alcune funzioni complesse del web 2.0, ma che possono anche essere impiegati per mantenere traccia delle attività di un utente. Si tratta di uno strumento evidentemente molto potente, specialmente ora che i browser li accettano in automatico perché sono necessari per moltissimi siti, e che ha portato l’UE a varare nuove leggi nel 2009 e il Garante italiano per la privacy a emanare un provvedimento, entrato in atto a giugno 2015, che disciplina strettamente l’utilizzo dei cookies, imponendo l’informazione dell’utente e la necessità del suo consenso alla loro installazione.

Se vuoi saperne di più sui nuovi metodi di tracciamento, leggi questo articolo (in inglese).

Le minacce alla privacy sono uno dei temi toccati dal libro, ma non ne sono l’argomento principale. Quello che preoccupa davvero Pariser è questo: se un motore di ricerca segue costantemente le nostre inclinazioni, rischia di specializzarsi unicamente in quello che ci interessa, mettendoci così un paraocchi automatico rispetto a tutto quello che è fuori delle nostre abitudini.

Il discorso, per quanto riguarda Google, non funziona. Google, infatti, non segue le inclinazioni dell’utente, ma le sue necessità. Un motore di ricerca non può specializzarsi, ad esempio, in un unico ambito di opinione politica, perché, in realtà, un motore di ricerca ha poco interesse per le opinioni di questo tipo. Un motore di ricerca bada alla rilevanza. Un gran numero di ricerche, ad esempio, si riferiscono alla presenza di esercizi commerciali in una certa area. Le opinioni ideologiche, qui, sono piuttosto inutili. Google ora riporta le recensioni o mostra un voto in forma di stelline, ma è tutto. Ora che sono passati cinque anni dall’uscita del libro, è piuttosto chiaro che Pariser, per quanto riguarda Google, ha sbagliato. Google non vive nel mondo delle pure opinioni: il suo lavoro principale è quello di offrire la via più rapida a delle esperienze. Soprattutto, il motore di ricerca di Google non è progettato né come un mezzo di comunicazione, né di intrattenimento.

Ma esistono degli altri casi in cui l’opinione di Pariser è fondamentalmente giusta. Quello più evidente è Facebook.

Facebook è un social network. Consiste di una bacheca personale, visibile ai propri amici (in questo ambito, un termine puramente tecnico che indica gli autorizzati a vedere i dati in bacheca), in cui pubblicare quello che più aggrada. Gli amici possono poi commentare. Ogni utente aveva, nel 2006, una pagina in cui vedeva, una dopo l’altra, tutte le operazioni compiute dai propri amici. Nel 2009 Facebook introduce Hedgerank, un sistema automatico per la selezione dei contenuti più interessanti, in maniera che l’utente non venga sopraffatto dalla quantità ingestibile degli aggiornamenti. Nel 2011, i contenuti più interessanti fra quelli già filtrati appaiono in prima posizione nella pagina. Nel 2013, Edgerank viene sostituito da un nuovo sistema, che seleziona gli argomenti sulla base di centinaia di migliaia di fattori. Nel frattempo, emerge che Facebook usa cookies per conoscere i siti visitati dai propri utenti, anche dopo che hanno fatto il log out (pratica, pare, correntemente abbandonata).

Facebook non cerca di fornire ai propri utenti le informazioni più utili, ma quelle più gradite. Aprire un link, cercare una persona, mettere il famoso “mi piace” – per Facebook sono informazioni utilissime per trovare altri contenuti che vi piaceranno. Il fatto è che cercherà di mostrare solo quelli che farà piacere vedere e cercherà di nascondere quelli più sgraditi.

L'ice bucket challenge mescola con successo narcisismo e filantropia.

In un certo senso, Facebook è la soglia di un mondo fantastico in cui tutto è gradevole e colorato. Questo avviene perché Facebook rappresenta un volto pubblico, cioè l’immagine che le persone vogliono dare di sé e, in generale, si cerca di apparire una persona riuscita. Per questo, i messaggi positivi da parte degli utenti proliferano e, consci che si tratta di atti pubblici, si cerca di mostrare la massima soddisfazione, arrivando occasionalmente a mostrarsi come dei divi. Questo non vuol dire che non esista la sincerità su Facebook, ma, in generale, si può dire con sicurezza che i sentimenti espressi sono diversi da quelli che si proporrebbero in un dialogo fra amici reali. Si cerca di mostrarsi smaglianti.

Facebook è costretto ad abbracciare questa cultura, perché i suoi contenuti dipendono dagli utenti. Ma questo non è il modo in cui funziona il mondo reale. La vita, qualunque direzione prenda, viene formata più dalle sfide incontrate, indipendentemente dal fatto di averle superate o meno, che non dai momenti di tranquillità. E la vita, soprattutto, comprende anche il dolore, e cercare di rimuoverlo forzatamente non può che provocare una collisione con la realtà.

Un esempio piuttosto noto è stata la somministrazione forzata agli utenti di una serie di immagini, tratte dal loro profilo, relative all’anno 2014, inquadrate in una cornice di coriandoli, per celebrare un anno definito a tappeto “grandioso”. Il logaritmo è stato applicato anche al profilo di Eric Meyer, la cui figlia era morta di tumore quell’anno. Meyer ne ha parlato sul suo blog e, quando l’ha saputo, il Product Manager di Facebook ha contattato Meyer per scusarsi con lui. Ma resta il problema di una realtà che non è fatta solo di cause per cui combattere o di eventi per cui gioire.

Non è l’unico problema di rappresentazione. Pariser cita un episodio in cui Zuckerberg definiva “di scarsa onestà” uno stile di vita in cui si mostrano due facce diverse in due situazioni diverse. È un pensiero di una ingenuità disarmante e, del resto, Zuckerberg aveva all’epoca venticinque anni. Oggi il problema è stato risolto aggiungendo le cosiddette liste, creando di fatto diversi livelli di amicizie e limitando quanto può essere visto dai singoli livelli.

È probabile che Facebook riuscirà a creare un metodo statistico anche per calcolare la presenza del dolore nella vita delle persone, sia per umanità, sia per aumentare il proprio valore per gli utenti. Il dato di fatto, comunque, è la necessità di Facebook di mostrare all’utente unicamente informazioni esteticamente (intendendo aisthesis come “percezione”) appropriate.

Questo non sarebbe un problema, se non fosse per il fatto che Facebook è divenuto un mezzo per il trasporto di informazioni esterne alla dimensione puramente personale. Facebook è un modo per avere notizie, dato che gli amici possono anche proporre articoli di giornali, ma questi, prima di raggiungerci, vengono filtrati sulla base nel nostro gradimento previsto. È un po’ come il sistema del cerchio magico, in cui l’uomo di potere riceve le notizie attraverso un gruppo selezionato, che però gli trasmette solo quello che gli piace: chi gli avrebbe raccontato aspetti sgradevoli ha perso il posto molto prima. Oppure, se si vuole, è come per gli uccellini appena nati: la madre che porta da mangiare ai piccoli nutre per primo chi urla più forte e tende a lasciare indietro quello che urla di meno. Il risultato è che la voce del meglio nutrito si renderà sempre più forte, mentre quella più debole si affievolirà fino a spegnersi.

Pariser si domanda cosa significhi questo per la democrazia. Il lavoro di pensare, anche nel mondo dell’informazione, è stato lasciato nell’ultimo mezzo secolo ai giornali. Anche la televisione colta si limita a riproporre materiale elaborato dalla parola scritta. Adesso, però, i giornali patiscono la concorrenza di blog, motori di ricerca, portali di notizie, social network. La fretta di riportare la notizia, inoltre, ne diminuisce l’affidabilità e la capacità di elaborazione, rendendoli meno utili.

Ora, secondo Pariser, quasi nessuno legge le notizie di politica (penso si riferisca agli Stati Uniti). La loro posizione nelle prime pagine, dovuta a una scelta fondamentalmente di tipo etico dei giornali, fa sì però che, almeno di scorsa, i titoli vengano letti. Se muoiono i giornali, cosa resta al cittadino per informarsi? O meglio: che cosa dovrebbe spingere il cittadino ad informarsi, se prima veniva informato a forza mentre scorreva il più in fretta possibile verso i risultati dei Red Sox?

Il Filtro non è un libro perfetto, ma è interessante. Offre delle riflessioni assolutamente non scontate sul ruolo dell’informazione e della ricchezza nello sviluppo della democrazia e nel suo mantenimento. Ci sono alcuni errori marginali – Pariser sembra sottovalutare il ruolo delle banche private prima del periodo industriale, visto che già nel 1300 i Medici avrebbero potuto comperare il regno d’Inghilterra, se l’avessero creduto un buon affare, mentre non riflette sulla differenza fra surface web, liberamente consultabile e indicizzato dai motori di ricerca, e deep web, irraggiungibile ai motori di ricerca perché protetto da password o altri mezzi – ma si tratta di eccezioni isolate. Certo, l’opinione su Google è sbagliata, ma il ragionamento è corretto per quanto riguarda Facebook. Nel 2014, un giornalista provò a mettere un “mi piace” per ogni contenuto che fosse apparso sul suo feed, e non fece altro per due giorni. Alla fine, i contenuti che gli apparivano avevano preso due direzioni: una era verso l’estremismo politico di destra, l’altra verso la stupidità più totale (il peggio dei tabloid), mentre Facebook mostrava una tendenza ad oscurare le attività dei suoi amici a favore dei contenuti esterni. La domanda che il giornalista si era posto alla fine era: Facebook è strutturato come la tana del Bianconiglio? Una volta che si inizia a scendere, se non ci si ferma, ci si trova per necessità in una specie di parodia demenziale del mondo reale, in cui viene somministrato tutto il peggio della produzione intellettuale a rapido consumo? Ovvero: perché un algoritmo casuale porta al proliferare strabordante delle stupidaggini? È davvero casuale, o è diretto verso un certo tipo di informazioni, perché ci si aspetta che gli utenti le preferiscano?

C'è ancora un motivo per leggere Il Filtro, ed è che si tratta di un modo per iniziare a capire internet. Tutti usano internet, ma in tanti lo fanno come si usa un telecomando – senza avere la minima idea di come funzioni. Il telecomando, però, non trasmette a ignoti in tutto il mondo informazioni su di noi destinate a restare salvate per decenni. Il libro mette la pulce nell’orecchio sulla necessità di informarsi e di essere consapevoli delle proprie scelte, oltre che di sapere che cosa si sta facendo.

Edizione recensita:

ELI PARISER, Il Filtro. Quello che internet ci nasconde. Traduzione di Bruna Tortorella, edizioni Il Saggiatore, Milano 2012. Ebook su Amazon a 10,99 €. Equivalente cartaceo: 240 pagine, 18 €

Edizione originale:

E. PARISER, The Filter Bubble: What the Internet Is Hiding from You. Penguin Press, New York 2011

Valutazione:

Un libro che vale la pena di leggere, perché spinge ad una presa di consapevolezza, ma le cui previsioni non corrispondono perfettamente alla realtà degli ultimi cinque anni. Offre spunti in vari campi e delle riflessioni non banali. Raccomandato a chi usa internet, a patto di leggerlo con spirito critico e di non cadere in una deriva catastrofista.

A scopo di informazione: chi desiderasse evitare il tracciamento a scopi economici da parte di aziende terze, può farlo su territorio europeo tramite questa pagina.

Visto che l'opera di Pirandello è ormai di pubblico dominio, seguono le prime pagine di Uno, nessuno e centomila, che Zuckerberg evidentemente non ha letto.

I. Mia moglie e il mio naso.

   «Che fai?» mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
   «Niente,» le risposi, «mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.»
   Mia moglie sorrise e disse:
   «Credevo ti guardassi da che parte ti pende.»
   Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
   «Mi pende? A me? Il naso?»
   E mia moglie, placidamente:
   «Ma sì, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra.»
   Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m'era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzì come un immeritato castigo.
Vide forse mia moglie molto più addentro di me in quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d'essere in tutto senza mende, me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, così...
   «Che altro?»
   Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi, le mie orecchie erano attaccate male, una più sporgente dell'altra; e altri difetti...
   «Ancora?»
   Eh sì, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino più arcuata dell'altra: verso il ginocchio, un pochino.
   Dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti questi difetti. E solo allora, scambiando certo per dolore e avvilimento la maraviglia che ne provai subito dopo la stizza, mia moglie per consolarmi m'esortò a non affliggermene poi tanto, ché anche con essi, tutto sommato, rimanevo un bell'uomo.
   Sfido a non irritarsi, ricevendo come generosa concessione ciò che come diritto ci è stato prima negato. Schizzai un velenosissimo "grazie" e, sicuro di non aver motivo né d'addolorarmi né d'avvilirmi, non diedi alcuna importanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto che tant'anni ero vissuto senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender moglie per aver conto che li avevo difettosi.
   «Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti del marito.»
Ecco, già - le mogli, non nego. Ma anch’io, se permettete, di quei tempi ero fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano giù per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza che di fuori ne paresse nulla.
   «Si vede,» - voi dite, «che avevate molto tempo da perdere.»
   No, ecco. Per l'animo in cui mi trovavo. Ma del resto sì, anche per l'ozio, non nego. Ricco, due fidati amici, Sebastiano Quantorzo e Stefano Firbo, badavano ai miei affari dopo la morte di mio padre; il quale, per quanto ci si fosse adoperato con le buone e con le cattive, non era riuscito a farmi concludere mai nulla; tranne di prender moglie, questo sì, giovanissimo; forse con la speranza che almeno avessi presto un figliuolo che non mi somigliasse punto; e, pover'uomo, neppur questo aveva potuto ottenere da me.
   E non già, badiamo, ch’io opponessi volontà a prendere la via per cui mio padre m'incamminava. Tutte le prendevo. Ma camminarci, non ci camminavo. Mi fermavo a ogni passo; mi mettevo prima alla lontana, poi sempre più da vicino a girare attorno a ogni sassolino che incontravo, e mi maravigliavo assai che gli altri potessero passarmi avanti senza fare alcun caso di quel sassolino che per me intanto aveva assunto le proporzioni d'una montagna insormontabile, anzi d'un mondo in cui avrei potuto senz'altro domiciliarmi.
   Ero rimasto così, fermo ai primi passi di tante vie, con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini, che fa lo stesso. Ma non mi pareva affatto che quelli che m'erano passati avanti e avevano percorso tutta la via, ne sapessero in sostanza piú di me. M'erano passati avanti, non si mette in dubbio, e tutti braveggiando come tanti cavallini; ma poi, in fondo alla via, avevano trovato un carro: il loro carro; vi erano stati attaccati con molta pazienza, e ora se lo tiravano dietro. Non tiravo nessun carro, io; e non avevo perciò né briglie né paraocchi; vedevo certamente più li loro; ma andare, non sapevo dove andare.
   Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto, subito, nella riflessione che dunque possibile? non conoscevo bene neppure il mio stesso corpo, le cose mie che più intimamente m'appartenevano: il naso le orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne l'esame.
Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi in breve in condizioni di spirito e di corpo così misere e disperate che certo ne sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (come dirò) il rimedio che doveva guarirmene.

II. E il vostro naso?

   Già subito mi figurai che tutti, avendone fatta mia moglie la scoperta, dovessero accorgersi di quei miei difetti corporali e altro non notare in me.
   «Mi guardi il naso?» domandai tutt'a un tratto quel giorno stesso a un amico che mi s'era accostato per parlarmi di non so che affare che forse gli stava a cuore.
   «No, perché?» mi disse quello.
   E io, sorridendo nervosamente:
   «Mi pende verso destra, non vedi?»
   E glielo imposi a una ferma e attenta osservazione, come quel difetto del mio naso fosse un irreparabile guasto sopravvenuto al congegno dell'universo.
   L'amico mi guardò in prima un po' stordito; poi, certo sospettando che avessi così all'improvviso e fuor di luogo cacciato fuori il discorso del mio naso perché non stimavo degno né d'attenzione, né di risposta l'affare di cui mi parlava, diede una spallata e si mosse per lasciarmi in asso. Lo acchiappai per un braccio, e:
   «No, sai,» gli dissi, «sono disposto a trattare con te codest'affare. Ma in questo momento tu devi scusarmi.»
   «Pensi al tuo naso?»
   «Non m'ero mai accorto che mi pendesse verso destra. Me n'ha fatto accorgere, questa mattina, mia moglie.»
   «Ah, davvero?» mi domandò allora l'amico; e gli occhi gli risero d'una incredulità ch'era anche derisione.
   Restai a guardarlo come già mia moglie la mattina, cioè con un misto d'avvilimento, di stizza e di maraviglia. Anche lui dunque da un pezzo se n'era accorto? E chi sa quant'altri con lui! E io non lo sapevo e, non sapendolo, credevo d'essere per tutti un Moscarda col naso dritto, mentr'ero invece per tutti un Moscarda col naso storto; e chi sa quante volte m'era avvenuto di parlare, senz'alcun sospetto, del naso difettoso di Tizio o di Caio e quante volte perciò non avevo fatto ridere di me e pensare:
   «Ma guarda un po' questo pover'uomo che parla dei difetti del naso altrui!»
Avrei potuto, è vero, consolarmi con la riflessione che, alla fin fine, era ovvio e comune il mio caso, il quale provava ancora una volta un fatto risaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri. Ma il primo germe del male aveva cominciato a metter radice nel mio spirito e non potei consolarmi con questa riflessione.
   Mi si fissò invece il pensiero ch'io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m'ero figurato d'essere.
   Per il momento pensai al corpo soltanto e, siccome quel mio amico seguitava a starmi davanti con quell'aria d'incredulità derisoria, per vendicarmi gli domandai se egli, dal canto suo, sapesse d'aver nel mento una fossetta che glielo divideva in due parti non del tutto eguali: una più rilevata di qua, una più scempia di là.
   «Io? Ma che!» esclamò l'amico. «Ci ho la fossetta, lo so, ma non come tu dici.»
   «Entriamo là da quel barbiere, e vedrai,» gli proposi subito.
   Quando l'amico, entrato dal barbiere, s'accorse con maraviglia del difetto e riconobbe ch'era vero, non volle mostrarne stizza; disse che, in fin dei conti, era una piccolezza.
Eh sì, senza dubbio, una piccolezza; vidi però, seguendolo da lontano, che si fermò una prima volta a una vetrina di bottega, e poi una seconda volta, più là, davanti a un'altra; e piú là ancora e più a lungo, una terza volta, allo specchio d'uno sporto per osservarsi il mento; e son sicuro che, appena rincasato, sarà corso all'armadio per far con più agio a quell'altro specchio la nuova conoscenza di sé con quel difetto. E non ho il minimo dubbio che, per vendicarsi a sua volta, o per seguitare uno scherzo che gli parve meritasse una larga diffusione in paese, dopo aver domandato a qualche suo amico (come già io a lui) se mai avesse notato quel suo difetto al mento, qualche altro difetto avrà scoperto lui o nella fronte o nella bocca di questo suo amico, il quale, a sua volta... - ma sì! ma sì! - potrei giurare che per parecchi giorni di fila nella nobile città di Richieri io vidi (se non fu proprio tutta mia immaginazione) un numero considerevolissimo di miei concittadini passare da una vetrina di bottega all'altra e fermarsi davanti a ciascuna a osservarsi nella faccia chi uno zigomo e chi la coda d'un occhio, chi un lobo d'orecchio e chi una pinna di naso. E ancora dopo una settimana un certo tale mi s’accostò con aria smarrita per domandarmi se era vero che, ogni qual volta si metteva a parlare, contraeva inavvertitamente la pàlpebra dell'occhio sinistro.
   «Sì, caro,» gli dissi a precipizio. «E io, vedi? il naso mi pende verso destra; ma lo so da me; non c'è bisogno che me lo dica tu; e le sopracciglia? ad accento circonflesso! le orecchie, qua, guarda, una più sporgente dell'altra; e qua, le mani: piatte, eh? e la giuntura storpia di questo mignolo; e le gambe? qua, questa qua, ti pare che sia come quest'altra? no, eh? Ma lo so da me e non c'è bisogno che me lo dica tu. Statti bene.»
   Lo piantai lì, e via. Fatti pochi passi, mi sentii richiamare.
   «Ps!»
   Placido placido, col dito, colui m'attirava a sé per domandarmi:
   «Scusa, dopo di te, tua madre non partorì altri figliuoli?»
   «No: né prima né dopo,» gli risposi. «Figlio unico. Perché?»
   «Perché,» mi disse, «se tua madre avesse partorito un'altra volta, avrebbe avuto di certo un altro maschio.»
   «Ah sí? Come lo sai?»
   «Ecco: dicono le donne del popolo che quando a un nato i capelli terminano sulla nuca in un codiniccio come codesto che tu hai costì, sarà maschio il nato appresso.»
   Mi portai una mano alla nuca e con un sogghignetto frigido gli domandai:
   «Ah, ci ho un... com'hai detto?»
   E lui:
   «Codiniccio, caro, lo chiamano a Richieri.»
   «Oh, ma quest'è niente!» esclamai. «Me lo posso ritagliare.»
   Negò prima col dito, poi disse:
   «Ti resta sempre il segno, caro, anche se te lo fai radere.»
   E questa volta mi piantò lui.